“La mia profezia è infausta. Quello che vedrai quando spalancherai gli occhi non ti piacerà. Tra tutti i futuri che puoi immaginare, quello che ti propongo è il più lontano. E la presenza di esseri umani non è presa in considerazione, anzi la vita stessa come la conosciamo, non esiste più. Ha lasciato qualche segno del suo passaggio, poi ha dovuto soccombere a se stessa, agli elementi; e come un’impronta lavata via dalle onde è svanita.” Con queste parole, Mirko Dadich, pittore, disegnatore e poeta di indubbia capacità creativa, descrive un ciclo di opere di sua paternità. Lontano da forme artistiche già viste, troppo spesso rivisitate e banalizzate, la sua arte è pura, non segue forme preconcette o stereotipate, ma arriva direttamente al messaggio. Partito da una forma di arte più astratta in cui ingrandimenti, forme cellulari, globuli e parti di strutture viventi, cercano la propria forma definitiva, arriva al suo linguaggio odierno dove questa dissoluzione apparente trova una sua completezza attraverso l’intrusione di una componente estranea alle sue opere precedenti. Gli equilibri oggi risultano turbati e si riflettono all’interno dei suoi quadri portando ad un messaggio che non sempre viene percepito da tutti, dalla massa; una massa di facce informi e urlanti che arrivano a costituire nient’altro che un muro in cui nessuna espressione di serenità è concessa. Omologati. Il messaggio non passa, la “trasmissione è fallita”. Ma la sua non fallisce; la sua capacità comunicativa è tale da rendere perfettamente comprensibile il suo genio, la sua verità che non sempre coincide con la verità di un mondo che non gli appartiene. Un lamento interiore, il suo, che prende forza attraverso gli oggetti e le forme. Conferire uno stato monumentale alle cose, sradicarle dal loro loco comune per appenderle ad una parete; a quello stesso muro dal cui giudizio non si scappa e dai cui volti si è interdetti. Un universo parallelo dove però la libertà è totale e la realtà diventa customizzabile. Tutti sono liberi di fruire l’opera e di rimanerne sconcertati. L’abitudine alla bidimensionalità è disillusa da un fare comunicativo che emergendo dall’opera ci guida proprio al suo interno, alla sua intima comprensione fino alla spiegazione del suo messaggio. Dissolvenza o apparenza? Guardare gelidamente l’osservatore o ignorarlo del tutto? Queste le domande che l’artista si pone celandosi nelle sue opere. Se Franco Costantini nella prefazione alla sua prima silloge di poesie “Tutti i baci e le bugie sanno di zucchero filato” scrive con fermezza “Non importa se è acerbo. Giù le mani del poeta” la traduzione dell’affermazione in “Non importa se acerbo. Giù le mani dal pittore” è immediata e sincera. Il suo linguaggio in continua evoluzione va coltivato e lasciato libero di ogni capacità espressiva. Antonella Perazza